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Questa lettera, scritta da un anziano medico laureatosi tanti anni fa, è rivolta ai giovani che, dopo la maturità, stanno per scegliere il loro destino professionale, cioè la facoltà universitaria; ed hanno interesse per le scienze sanitarie. 

La medicina, intesa come insieme di azioni che hanno il fine di conservare la salute, esiste da sempre: anche gli animali “si curano” e libri interi ne trattano.                           Il significato della parola “medicina” si precisa in senso moderno, quando nell’evoluzione culturale “umana”, viene acquisito il linguaggio simbolico verbale, che permette lo sviluppo del pensiero astratto, e l’uomo cominciò a porsi domande su se stesso e sul mondo che lo circondava.                                                                                       Si può immaginare che un nostro antenato, o forse sarebbe meglio dire, una nostra antenata (poi vi dirò perché credo che probabilmente si sia trattato di una donna), cercando nella foresta un’erba particolare, che sapeva avrebbe potuto alleviare un male di cui lei o qualcuno della sua tribù soffriva, si sia chiesta, per la prima volta, perché si desse tanta pena per trovare quell’erba ed abbia cominciato a riflettere sul significato della sua  ricerca.                                                                                             In altre parole la medicina iniziò quando comportamenti particolari, come la ricerca di erbe, o azioni di altro tipo, finalizzate a eliminare o alleviare una situazione di disagio definibile come malattia, divennero intenzionali e consapevoli, cioè non furono più puramente istintivi, come avveniva, ed avviene ancora oggi per gli animali.        Chi scrive questa nota è certo che la persona, che per prima fece quella riflessione, sia stata una donna, perché le donne, a quei tempi, si intendevano di erbe, dovendo raccoglierne ogni giorno come cibo per i propri figli, per i padri dei loro figli e per loro stesse; e perché più degli uomini, avendo esse partorito, sapevano cosa voleva dire malattia e dolore.

In quel momento che gli antropologi con molta approssimazione fanno risalire a circa un milione di anni fa, nacque la Medicina e quindi anche la sua Storia.

Per centinaia di migliaia di anni le malattie vennero spiegate, come tutti i fenomeni fisici incomprensibili, ricorrendo ad entità soprannaturali: gli Dei, che potevano mandare quella sventura (la malattia) e potevano allontanarla riportando la salute. A volte la malattia stessa era vista come un’entità maligna (un demone), che si impossessava del malato. In ogni caso si pensava che la malattia avesse sempre un’origine esogena all’organismo, come poteva esserlo una freccia che provocava una ferita.                       Anche se i primi medici furono donne, in quasi tutte le antiche civiltà ben presto i maschi, escludendo l’assistenza ai parti, esautorarono di fatto le donne da questa funzione, perché poter controllare le malattie voleva dire arrogarsi una posizione di dominio su tutti i membri della comunità.
Così quasi tutte le antiche civiltà ebbero medici-sacerdoti che curavano i malati con cerimonie, preghiere, e talismani, non tralasciando le conoscenze tramandate da tempi antichissimi di farmaci e tecniche, anche sofisticate, per la cura delle ferite, delle fratture e dei traumi in genere.

Le cose cambiarono radicalmente nel VII-VI secolo a.C., quando nel mondo della Grecia Classica nacque la scienza medica legata al nome di Ippocrate e alla sua Scuola.
In tale Scuola la malattia fu definita come fenomeno di origine puramente naturale senza nessun collegamento con il mondo degli Dei e si svilupparono concetti nuovi per designare i quali si crearono  parole che anche ora oggi caratterizzano il mondo medico, come anamnesi, semeiotica, eziologia, diagnosi, prognosi, diabete, scoliosi, diarrea e tante altre.
Venne valorizzato lo studio del malato e registrati accuratamente i segni, i sintomi e l’evoluzione delle malattie, con notazione dei risultati ottenuti con certi farmaci e certi trattamenti: si trattò di compilazione di vere e proprie cartelle cliniche stabilì inoltre, che la Medicina poteva essere insegnata a chi era interessato ad essa e non più tramandata soltanto di padre in figlio, come era stato nella pratica fino ad allora.

Tuttavia il progresso più importante attribuibile a quella Scuola, detta Ippocratica, e valido nella sua luminosa chiarezza ancora oggi, fu quello di impegnare i futuri medici ad un Giuramento, detto appunto, di Ippocrate, che imponeva l’obbligo per i medici di perseguire, in ogni occasione, il bene del malato, cioè di agire sempre nel rispetto e nell’interesse della persona che soffriva.

Il Giuramento di Ippocrate richiamava all’etica necessariamente condivisa perché potesse esistere una società umana degna di questo nome, con un dovere in più per i medici che mai dovevano dimenticare “di agire sempre per il bene del malato”. Non solo non dovevano praticare interventi diretti a procurare il dolore del prossimo, attività in cui per le specifiche conoscenze tecniche il medico poteva essere particolarmente abile, ma dovevano anche evitare le azioni e le medicine inutili, e soprattutto non dovevano lasciare spazio, per amore del quieto vivere o per altri interessi, ai negatori delle verità scientifiche, ai maghi e ai ciarlatani, mascherati sotto le spoglie più ingannevoli.

Capite bene, quindi che corollario imprescindibile di questo era, ed è ancora oggi, la responsabilità che il medico aveva (ed ha ancora oggi) di garantire i non medici dall’inganno, perché, fin da quando esiste una comunità umana: “…i malandrini, … senza paura di niente e prontissimi a commetter qualsiasi cattiva azione, non ci mettono molto – come è logico – a rendersi conto che la vita umana è schiava di due grandi forze: la speranza e la paura; e che perciò chiunque sia in grado di sfruttare l’una e l’altra come si deve, farà ben presto fortuna.” (“L’Alessandro o il Falso Profeta” – cap. 8 -).

Così già, nel II secolo dopo Cristo, Luciano di Samosata scriveva ad ammonimento dei suoi contemporanei.

La medicina antica limitata alle possibilità di apprezzare lo stato del malato ricorrendo soltanto ai cinque sensi ed a qualche primitivo strumento, non poté fare progressi veramente sostanziali per quasi 2000 anni, cioè fino a quando non fu a disposizione il microscopio, (inizi del ‘500), che permise di osservare cose invisibili all’occhio umano: vedere le cellule, studiare i tessuti e scoprire l’incredibile mondo, insospettato fino ad allora,  della vita microscopica.

Da quel momento il progresso medico è divenuto vertiginoso accelerando di secolo in secolo per l’aiuto di acquisizioni tecniche nuove, sempre più sofisticate e perfette. Fu possibile la cura di malattie prima incurabili e fu data ai medici la possibilità di prevenirne altre con mezzi diagnostici inimmaginabili per i medici antichi; e con le vaccinazioni sconfiggere mali tremendi come il vaiolo, la malattia che forse ha fatto più vittime fra gli uomini. Questo progresso (oggi misurabile addirittura di giorno in giorno) voi lo conoscete bene, informati dai moderni mezzi di comunicazione e per averlo sperimentato anche voi stessi, vissuti liberi dallo spettro della poliomielite, che fino agli anni ’60, ha colpito anche in Italia.

Dal passato, tuttavia, viene, come già si è detto, un messaggio ineludibile e insuperato, che deve guidare anche l’azione del medico moderno: il valore etico della professione come è scritto nell’antico Giuramento; e qui lo ripeto e lo sottolineo ancora una volta: “il medico deve agire sempre nell’interesse del malato”.     

                                                                                                                          >>>>

Qualcuno fra i medici, oggi come nel passato, va ancora più avanti e per aiutare gli ultimi, quelli che più degli altri hanno bisogno di cure, volontariamente sceglie una via ancora più difficile, senza temere di “parer dispetto a maraviglia” (Dante Paradiso c. XI v.90), agli occhi del comune sentire.
Questi medici non aspettano i malati negli Ospedali o negli Ambulatori, che non ci sono nei paesi in cui vivono gli ultimi del mondo, ma li vanno a cercare là dove essi vivono in condizioni, a volte tanto miserevoli, da non avere nemmeno la consapevolezza della necessità di essere curati.
L’azione di questi medici, che possono essere definiti, usando un’antica espressione, il sale della Terra, non può prescindere da un risvolto sociale di base. Come diceva Virchow fanno politica nel senso più nobile del termine, e curando chi veramente ha più bisogno di tutti, divengono costruttori di pace, che il Figlio dell’uomo chiamava beati.   

                                                          Dott. Pierluigi Benedetti

                                 Laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Firenze il 20 luglio 1970

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